Veni, vidi, vici. Sempre e comunque. E ovunque, soprattutto. Ad Amsterdam come a Milano, a Barcellona come a Parigi. Il conto totale dei trofei non mente: 37. Il primo nel 2000, l'ultimo nel 2017. A un certo punto, quando dava un'occhiata alle classifiche dei più vincenti di sempre, scopriva di esserci lui al primo posto. Maxwell Scherrer Cabelino Andrade, che tutti conoscono come Maxwell e basta, è sempre stato l'uomo giusto nel posto giusto al momento giusto. Un papa-títulos, come dicono in Brasile. Un mangiatitoli. Ma in realtà non ci ha mai dato troppo peso. A lui è sempre importato altro: il collettivo, i successi di squadra.
Ha fatto parte di squadroni rimasti nella memoria, Maxwell. L'Ajax che si è issato fino a un centimetro dalla semifinale di Champions League, prima di cadere dolorosamente per mano del cattivo di turno Jon-Dahl Tomasson. E poi l'Inter di Roberto Mancini e José Mourinho, capace dal 2006 al 2010 di spezzare poderosamente quasi un ventennio di digiuno. Quindi il Barcellona di Pep Guardiola. E infine il neonato PSG degli sceicchi. Un uomo fortunato, dirà qualcuno. No, controbattono altri: chi lo prendeva lo faceva con l'intenzione di alimentare il proprio progetto vincente con un elemento di sicura affidabilità. Ed è una tesi, la seconda, che regge. Eccome.
E dire che Maxwell manco avrebbe voluto farlo, il calciatore. Da ragazzino è un ottimo nuotatore. Un portento, anzi. E ha un'ambizione sfrenata: fa incetta di medaglie, ma quelle di bronzo e d'argento se le sfila rapidamente dal collo, un po' come gli inglesi a Wembley. L'altra passione, sempre più forte durante l'ingresso nell'adolescenza, è il calcio. Il suo primo allenatore di nuoto, Leandro Dumbra, ha ricordato a 'Rede Globo': “Volevamo che rimanesse qui da noi”. E Maxwell: “Arriva un momento in cui devi scegliere”. E Maxwell sceglie. Il pallone, naturalmente. Attrazione troppo forte, nonostante i successi in piscina. Prima c'è il futsal, il calcetto alla brasiliana da cui sono passati una miriade di fuoriclasse, e poi il calcio vero.
Maxwell è un tifoso del Vasco da Gama, ma nel 1998 lo nota il Cruzeiro, che lo porta a Belo Horizonte. La famiglia è benestante, non necessita di un riscatto sociale attraverso i successi del figlio nel pallone, e dunque inizialmente è refrattaria. Però non può che accettare. Nel 2000 il mancino conquista il suo primo trofeo, ma senza scendere in campo: la Copa do Brasil. E intanto continua a mettersi in mostra nelle giovanili della Raposa. Tanto che l'Ajax mette gli occhi su quel lateral esquerdo, decidendo di investire per il futuro: non se ne pentirà. Ma il dramma è in agguato: dopo sei mesi, il fratello Gustavo perde la vita in un incidente d'auto. La tragedia è così grande che pare manchi il terreno sotto i piedi. Così Maxwell prende i genitori e li porta a vivere con sé ad Amsterdam. “Abbiamo iniziato a respirare nuovamente”, ricorda la madre Maria Paulina.
All'Ajax, Maxwell inizia a riempire la propria bacheca personale: vince per due volte l'Eredivisie, altre due la Coppa d'Olanda, altre due la Supercoppa. Più la semifinale di Champions sfiorata nel 2003. Conosce un giovane arrivato dal ghetto di Malmö, Zlatan Ibrahimovic, talento da fenomeno e una testa un po' così. Ed è subito feeling. Rafforzato dal celebre episodio del frigo vuoto, quello che lo svedese ha raccontato in 'Io, Ibra', la sua autobiografia:
“Non che questa fosse una novità per me, ma quando arrivai ad Amsterdam ero a secco di soldi, chiesi aiuto a Beenhakker, ai miei genitori, ma niente, dovevo arrangiarmi da solo. Fu allora che pensai di chiamare quel giovane brasiliano arrivato all’Ajax insieme a me… Lo chiamai, gli chiesi se potevo stare un po’ da lui, mi disse che potevo certamente e mi aiutò molto ad ambientarmi in quel periodo così complicato. Mi raccontò della sua vita in Brasile, del legame che aveva con suo fratello morto in un incidente stradale, io feci lo stesso con la mia vita, e capii fin da subito che avevo di fronte un bravissimo ragazzo. Ecco, se devo trovargli un difetto, dico che è troppo buono”.
“L'immagine che le persone hanno di Ibra non corrisponde alla realtà – ha detto Maxwell a 'L'Equipe' – È una persona semplice, di famiglia, come me ha poche pretese. A entrambi non piacciono le persone false e superficiali. Siamo diventati amici, ma adesso per me è come un fratello. Le nostre famiglie si conoscono e il nostro rapporto continuerà anche dopo il calcio”.
Ibra e Maxwell si ritroveranno nel 2006. In Italia, all'Inter. Lo svedese è reduce da due stagioni alla Juventus. Il brasiliano arriva invece con un ginocchio fracassato, frutto della rottura del crociato rimediata all'Ajax un anno prima. Formalmente viene girato in prestito all'Empoli, perché l'Inter ha già troppi extracomunitari in rosa, ma se andate a sfogliare in archivio il numero delle sue presenze non ne troverete: non mette mai piede in campo. Quando torna a Milano, però, è completamente ristabilito. E ben presto si prende il posto del campione del mondo Fabio Grosso. Piace a Mancini, piace sempre più alla gente per quel piede sinistro così educato.
Non segna molto, Maxwell, ma quando lo fa sono reti pesanti. E personalmente importanti. Nei suoi tre anni all'Inter ci riesce solo un paio di volte in campionato. Il primo goal, il 1° aprile 2007 al Parma, non è uno scherzo. Anzi: è un capolavoro. Scambio con Crespo, inserimento in area, gioco di gambe per far fuori tre avversari e staffilata mancina sotto l'incrocio opposto. San Siro, se ancora ce ne fosse bisogno, è definitivamente conquistato.
"Sono davvero contento per quello che sono riuscito a fare dopo tanto tempo e dopo un momento difficile che ho passato nella mia carriera – dice Maxwell dopo la partita – Il mio goal più bello? Non so se sia stato il più bello: sicuramente è il più importante. Dopo il brutto periodo passato, questo goal mi dà tanta fiducia, lo voglio dedicare a tutti quelli che mi sono stati vicini. Ho dovuto fare un grande lavoro: fisicamente era molto difficile recuperare, pensavo anche di non riuscire a tornare. L'Inter mi ha dato tanta forza per andare avanti e mi ha dato la possibilità di portare avanti un lavoro di grande qualità”.
Il declino nerazzurro di Maxwell inizia quando in panchina giunge José Mourinho. Lo Scudetto arriva di nuovo, perché l'Inter di quegli anni in Serie A è ingiocabile per chiunque, ma la titolarità del brasiliano comincia a scricchiolare. Mou punta forte sul giovane Santon, lo fa giocare a sinistra. E Mino Raiola, agente di Maxwell, si arrabbia. Quando glielo riferiscono in conferenza stampa, il portoghese fa lo gnorri: “Chi è che ha parlato?”. Raiola, gli rispondono, il procuratore. E lui: "Non conosco il procuratore. Non commento le sue parole. Un procuratore è un procuratore, io non parlo con il procuratore di Maxwell, parlo con Maxwell". Però i giornalisti non demordono. Al termine della chiacchierata, l'argomento verte nuovamente sulla diatriba Maxwell-Santon. E Mourinho prende la parola per non lasciarla (quasi) più:
"Relativamente a Maxwell dico solo una cosa, molto semplice ed è la stessa che dicono tutti i tifosi a San Siro tranne voi che volete fare polemica. L'unico colpevole della situazione di Maxwell è Santon, non è Mourinho, non è Maxwell, non è il procuratore, né nessun'altro. E se si vuole fare un po' di polemica, vi chiedo solo che cosa pensereste se io, in questo momento così brillante per Santon, decidessi di tenerlo fuori dal campo per fare felice il procuratore di Maxwell. Che direste? Questo 'bambino' (ovvero Santon, ndr) è adatto a giocare quindici anni con l'Inter al più alto livello, per il suo rendimento in campo, per il fatto che ha dimostrato di saper crescere partita dopo partita quando solitamente un calciatore giovane un giorno gioca una grande partita e un altro giorno non gioca molto bene. Dopo spetta all'allenatore decidere se dare continuità o meno allo sviluppo delle sue capacità, e potrebbe arrivare un momento nel quale potrei decidere che è meglio farlo riposare o che è meglio farlo uscire dalla scena principale. Il bambino gioca una, due, tre, quattro, cinque, dieci, dodici partite, gioca contro il Milan, la Roma, il Manchester United, contro Cristiano Ronaldo e i giocatori più importanti, e sembra che abbia dieci o trent'anni di esperienza. Ripeto, è lui l'unico colpevole. Almeno questa volta non si può dire che sia Mourinho ad esserlo".
Maxwell non accetta la panchina, Raiola neppure. E così l'addio diventa inevitabile. Nell'estate del 2009 si fa avanti il Barcellona, che trova l'accordo con l'Inter e porta il mancino in Catalogna. Maxwell ritrova fiducia, gioca con regolarità. Ritrova Ibrahimovic, che in quelle settimane ha compiuto lo stesso percorso. E prova a dimenticare Mourinho. Di lui dirà in seguito: “Mi ha segnato, mi ha fatto crescere”. Però, all'inizio, cova ancora un po' di rabbia. E quando 'Sport' gli chiede – ovvio – di fare un confronto tra Mou e Pep Guardiola, la risposta nasconde una discreta dose di veleno:
"Gli ultimi mesi all'Inter sono stati piuttosto strani. Ho capito che era venuto il momento di andare via. Guardiola mi spiega le cose in maniera molto tranquilla e posata. È molto meglio che avere un allenatore che non ti dice niente. Il tecnico del Barcellona riesce a essere più vicino ai giocatori rispetto a Mourinho, forse perché ha smesso da poco tempo".
Quel Barça è reduce dal Triplete, si prende un'altra Liga, ma in semifinale trova un ostacolo insormontabile. L'Inter, ironia della sorte. Maxwell fa il suo, serve a Pedro la palla dello 0-1 a San Siro, ma è costretto a guardare il suo ex allenatore correre a perdifiato al Camp Nou dopo la conquista della finale del Bernabeu. Poco male: i catalani si rifaranno 12 mesi più tardi, a Wembley contro il Manchester United. Maxwell, però, non c'è. Ha già saltato per infortunio le due semifinali col Real Madrid e non viene convocato nemmeno per Londra. Ma intanto allunga una lista sempre più nutrita con l'ennesima coppa, unica Champions della sua carriera.
È il preludio all'addio, che arriva pochi mesi più tardi. Gennaio 2012: il PSG sta iniziando la propria collezione di figurine e per la fascia sinistra pensa a Maxwell. Gli sceicchi sono sempre più ambiziosi, hanno iniziato sei mesi prima prendendo Gameiro e dopo pochissimo sono già arrivati a puntare sulla sua esperienza. Stavolta Maxwell non vince, perché il Montpellier di Giroud fa l'impresa e sciocca la Francia e l'Europa. Ma al secondo anno la Ligue 1 è una pura formalità. E pure al terzo, e al quarto, e al quinto.
“Quando sono arrivato al PSG – dice nel 2016 a 'Le Parisien' – abbiamo cominciato assieme un progetto. E se osservo la crescita del club sono felice, perché so di avere partecipato a un cambiamento. È qualcosa di diverso rispetto all'Inter o al Barcellona”.
A Parigi, Maxwell si guadagna pure la chiamata del Brasile. Per anni e anni, la Seleção lo ha costantemente ignorato. Del resto c'erano Roberto Carlos e poi Marcelo. Ma le prestazioni francesi, la continuità di rendimento e quella inusitata propensione ad alzare trofei su trofei, non passano inosservati. Ci sono i Mondiali del 2014 alle porte. E Maxwell è nella lista del 23. Ha davanti a sé Marcelo, non gioca mai, scende in campo solamente nell'inutile finalina contro l'Olanda, persa malamente per 3-0 con negli occhi il ricordo del 7-1 tedesco. Meglio così.
Nel 2016 gli scade il contratto, ma il PSG decide di rinnovarglielo per un altro anno. Altri 12 mesi, poi l'addio. Maxwell ha 35 anni, capisce di non averne più e dice stop. Con una scrivania da dirigente già assicurata e l'amicizia duratura con Ibrahimovic. Che qualche anno fa ha stilato a 'Sportweek' il suo undici ideale di tutti i tempi. Buffon in porta, Nesta e Cannavaro centrali difensivi, l'idolo Ronaldo (il Fenomeno) assieme a Zidane e Maradona. E via così. Terzino sinistro? Maxwell, perché “è mio amico”. Semplice.