Fernando Torres, la prima vittima illustre della “9” rossonera

Torres GFX
Goal
Dall’approdo tra mille incognite allo scambio con Cerci dopo appena quattro mesi: l’apparizione fallimentare de El Niño con la maglia del Milan.

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Nel calcio, come nella vita, esistono matrimoni che non s’hanno da fare. Delusioni cocenti, aspettative disattese, fuochi che non rimangono accesi. Semplicemente ci sono storie che non sono destinate a funzionare. Uno degli esempi più eloquenti è rappresentato dalla breve, quanto avara di emozioni, parentesi di Fernando Torres con la maglia del Milan. L’ex attaccante spagnolo approda sulla sponda rossonera dei Navigli alle porte della stagione 2014/2015 ad anni 30, dopo un’esperienza in chiaroscuro con la maglia del Chelsea. Adriano Galliani vede nello spagnolo il nome giusto, d’impatto, per dare una scossa ad un ambiente letteralmente sfiduciato da un ridimensionamento tecnico-sportivo che ha cancellato il Milan dalle cartine dell’Europa calcistica, relegandolo ad una posizione marginale anche all’interno dei confini italiani.

Torres può essere l’impulso, la scommessa vincente. Un calciatore in cerca di rilancio al servizio di una squadra che persegue lo stesso obiettivo. Gli interrogativi però non mancano. Si tratta di un acquisto che spacca l’opinione pubblica e le sensazioni di una tifoseria divisa sull’effettiva bontà dell’operazione. C’è chi rimprovera il non aver puntato su profili più futuribili e con maggiori margini di crescita, c’è chi invece apprezza l’arrivo di un giocatore dal pedigree internazionale che potrebbe donare nuova linfa ad un club in totale ricostruzione. Il fatto che arrivi con la formula del prestito biennale (con opzione per il terzo) da un top club europeo, però, è già di per sè un grosso indizio, ma procediamo con ordine.

Fernando Torres è stato da sempre un fenomeno di precocità. Un Niño abituato a ragionare da subito come un grande. A 17 anni diventa il più giovane esordiente di sempre con la casacca dell’Atletico Madrid, a 18 debutta nella Liga e a 19 veste già la fascia di capitano. Tutto e subito. Bruciare le tappe è il filo conduttore di un carriera scandita sempre e solo dai numeri, mai banali. Dopo aver riportato l’Atleti in Liga, ne diventa il faro: dal 2003 al 2007 chiude sempre in doppia cifra di goal in Liga, per un totale di 75 reti in cinque stagioni che gli schiudono le porte della nazionale quale erede designato di Raùl.

I numeri, come detto, non mentono mai. A sporcare il quadro c’è quello “zero” alla voce presenze internazionali – eccezione fatta per cinque apparizioni in Intertoto - che inizia ad andare molto stretto. Per il ragazzo di Fuenlabrada è tempo di fare il salto di qualità e ogni nuovo percorso, si sa, comporta scelte dolorose, responsabili, da uomo. El Niño diventa Hombre e recide il cordone ombelicale con la casa madre. Ad attenderlo c’è la parata di stelle della Premier League e nella fattispecie una delle maglie più prestigiose, quella del Liverpool.

Dalle parti di Anfield Road l’impatto è paragonabile a quello di un elefante in una cristalleria: 33 goal il primo anno, cinque in più di Owen che in una sola stagione arrivò massimo a 28, ed eguagliata un’altra leggenda del club come Roger Hunt grazie alla striscia di otto partite consecutive a segno. Non finisce qui. Con 24 centri in Premier diventa il giocatore straniero ad aver segnato di più al primo anno in Inghilterra , superando di una lunghezza Ruud Van Nistelrooy.

Nella città dei Beatles Fernando diventa una star, segna come se non ci fosse un domani, delizia con le sue eleganti movenze da attaccante moderno ma il neo degli zero trofei vinti rimane una macchia tanto indelebile quanto inaccettabile per uno come lui. Durante i suoi tre anni e mezzo in rosso le uniche gioie – e che gioie – gliele regala un’altra maglia rossa, quella della nazionale con la quale vince l’Europeo del 2008 e il Mondiale del 2010.

Se con la Roja le cose vanno a gonfie vele, a livello di club urge un’immediata inversione di rotta che si concretizza, puntuale, nel gennaio del 2011. Come un fulmine a ciel sereno ecco piombare il Chelsea che lo strappa dalle grinfie dei Reds, non senza strascichi polemici, mettendo sul piatto una cifra che sfonda il muro dei 50 milioni di euro.

“Il Liverpool – Lo sfogo dell’attaccante alla stampa inglese e riportato dalla Gazzetta dello Sport - voleva acquistare nuovi giocatori e cominciare un nuovo ciclo. Ho cominciato a pensare che questo processo avrebbe richiesto del tempo, 2-3-4 o addirittura 10 anni. E io non avevo questo tempo. Allora avevo 27 anni e non potevo perdere altro tempo, volevo vincere. Al Liverpool erano passati cinque anni e stavano ancora tentando di costruire una squadra, ma la posizione in Premier League non era cambiata. Sono stato ceduto come un traditore, ma non è mai stato così durante le negoziazioni. Il Liverpool non poteva ammettere quello che stava per fare e quindi ha dovuto trovare un colpevole”

Il trasferimento in quel di Londra, oltre ad acuire i veleni tra lo spagnolo e la sua ex squadra, ridefinisce i connotati del Torres calciatore. La sublimazione di forza e tecnica ammirata nella sua prima tappa inglese, lascia spazio ad un rendimento ondivago, a tratti contraddittorio. Diminuiscono i goal - saluterà la capitale britannica con la media di un centro ogni quattro partite - ma in compenso inizia a riempire una bacheca che sino a quel momento aveva accumulato soltanto polvere. Per il nuovo attaccante Blues è finalmente giunto il tempo di riscuotere: vince una Champions League – con acuto decisivo contro il Barcellona in semifinale - un’Europa League e una FA Cup, più il secondo europeo consecutivo con le Furie Rosse nel 2012, timbrando il cartellino in finale contro l’Italia. Tuttavia il suo peso specifico all’interno delle gerarchie di squadra inizia a perdere di consistenza.

“Oggi sono un giocatore differente, e non voglio dire bugie: a volte mi manca davvero essere il giocatore che ero, quello che sapeva di avere il posto garantito all’inizio della partita. – dichiarò il calciatore a So Foot nel maggio del 2014 - Ad un certo punto, mi sono anche messo a riguardare i video dei miei goal: volevo capire come funzionava, prima, quando segnavo”.

E così si arriva al fatidico 31 agosto 2014, giorno del suo passaggio ufficiale al Milan . Entrato nella lista degli epurati stilata da Josè Mourinho, Torres viene ceduto con la formula del prestito nel corso dell’ultimo giorno di mercato. Quello dove si è soliti mettere le pezze o, ancora peggio, sbolognare chi è di troppo. Con un tale biglietto da visita e la triste aura di cavallo a fine corsa, il madrileno si assume la pesante responsabilità di indossare la tanto chiacchierata numero 9 rossonera.

E’ la maglia dei grandissimi, è la maglia di Virdis, di Van Basten, di Massaro, di Weah e per ultimo di Filippo Inzaghi, guarda caso il suo nuovo allenatore. Dal ritiro di ‘Superpippo’ chi l’ha indossata, fallisce. Non c’è scampo. Da Alexandre Pato a Mattia Destro, passando per Alessandro Matri, è una sequela di fallimenti senza appello. Un tabù da infrangere e un nuovo capitolo da scrivere per smentire chi lo vuole già in piena parabola discendente. Parte con questa duplice missione l’avventura italiana di Fernando Torres che, ben presto, si troverà a cozzare con una realtà più complicata del previsto.

I nodi, sia strutturali che tecnici, vengono presto al pettine, nonostante un illusorio avvio di campionato condito dalle due vittorie contro Lazio e Parma. Alla terza giornata, a San Siro arriva la Juve. Tevez risolve la partita in favore dei bianconeri e Fernando fa il suo esordio nel finale di gara subentrando ad Andrea Poli. Tre giorni più tardi, al Castellani di Empoli, il 9 si sblocca, gioca dal primo minuto e con una splendida torsione aerea, su cross di Abate, apparecchia la rimonta dei suoi. La partita finirà 2-2 ma quello rimarrà il suo unico lampo in Serie A.

Da quel momento, infatti, seguiranno soltanto otto apparizioni per un minutaggio totale di 592’, poco meno di un’ora a partita. Lo spagnolo si rivela un autentico equivoco nel 4-3-3 disegnato dall’allenatore piacentino e la scintilla tra i due non scatterà mai. Persino durante gli allenamenti il calciatore appare svogliato, senza quella fame e quel fuoco sacro che sembrano spegnersi troppo velocemente o che, molto probabilmente, non si sono mai accesi. E’ la storia di un feeling mai sbocciato. Un rapporto nato tra mille incognite, sfociato in un addio repentino e, a onore del vero, piuttosto indolore su ambo i fronti. 

“È un club che ho amato sin da bambino, ma purtroppo quando ci siamo trovati non era il momento giusto né per me, né per loro. – il pensiero di Torres riportato da MilanNews - Grazie al Milan, però, sono potuto tornare all’Atletico, il club che amo da sempre. Gli ultimi tre anni sono stati i più emozionanti della mia vita”

Quando una storia finisce ci si aggrappa a quelle poche certezze che l’avanzare incessante del tempo non è mai riuscito a scalfire. La proverbiale zona di comfort che allevia tutti i mali. Per l'attaccante iberico questo porto sicuro ha sempre avuto un nome soltanto: Atletico Madrid.

PS Torres

Il 27 dicembre del 2014 diventa a tutti gli effetti un calciatore del Milan ma la mossa è puramente burocratica perché due giorni più tardi lo scambio di prestiti sull’asse Milano-Madrid prende forma: Alessio Cerci ritrova il Belpaese e lo spagnolo imbocca la tanto amata strada di casa. Partito da Niño, tornato da Hombre. La reunion è da brividi come testimoniato dai 45.000 spettatori che accolgono festanti il ritorno a casa del figliol prodigo nel giorno della presentazione al Vicente Calderòn.

La sua Madrid e il suo Atletico contribuiscono a regalargli una coda finale di carriera dalle forti emozioni. Una sorta di seconda giovinezza. In poco più di tre anni realizzerà 38 goal complessivi di cui i primi due ai rivali storici del Real Madrid. Sempre contro i Blancos perderà una finale di Champions proprio in quel San Siro che di gioie calcistiche non gliene ha regalata nemmeno una. Il 16 maggio 2018 entrerà in campo nei minuti conclusivi della finalissima di Europa League che i “Colchoneros” vinceranno piegando 3-0 l’Olympique Marsiglia.

Sarà il primo e unico titolo vinto con la "sua" maglia. Quattro giorni dopo la indosserà per l'ultima volta realizzando due gol contro l’Eibar e congedandosi nel miglior modo possibile dalla propria gente, prima degli ultimi sprazzi di calcio giocato vissuti in Giappone con la maglia del Sagan Tosu, a precedere il definitivo ritiro. Una nuova tappa, un nuovo campionato, una nuova storia, ma nel cuore spazio per tinte più forti del bianco e del rosso non ci sarà mai. Con buona pace del popolo milanista, triste spettatore della parentesi più buia della carriera di un grande campione. Doveva andare così.

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